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Qualche giorno fa, una notizia di cronaca che non avremmo voluto leggere: il Sindaco di Mira (Ve), del Movimento 5 stelle, ha rimosso il proprio assessore perché il suo stato interessante è incompatibile con la sua funzione. Non commento lo sfondo politico della vicenda, non mi interessa, ma rimango sgomenta rispetto all’ennesima prova di maschilismo del nostro Paese, dove una lista elettorale viene respinta perché composta da “troppe” donne, dove la maternità, promessa di continuità e di futuro, costituisce un elemento di discriminazione e di espulsione.
Allora, un pensiero che da tempo prende forma nella mia mente si rafforza e si definisce in modo sempre più chiaro e mi porta a sostenere, senza il rischio di essere smentita, che la connotazione femminile del mondo scolastico non sia un dato neutro. Quanto di casuale c’è nella corrispondenza tra svilimento, svalutazione, screditamento fino alla denigrazione pubblica e all’attacco mediatico nel fatto che la percentuale di insegnanti donne nella scuola supera l’80 %? Tralasciano provvisoriamente gli effetti negativi dei tagli sull’intero sistema scolastico ed educativo, quanto negativa può essere una contrazione dei posti disponibili se si pensa alla connotazione di genere appena descritta?
In difesa della scuola, ma nello specifico degli insegnati, poco o nulla si è fatto in termini di progressione e avanzamento professionale, a partire dalla inadeguata retribuzione per i docenti, dalla indifferenza collettiva, a tratti cinica, rispetto agli attacchi ingiustificati rivolti anche a livello politico e istituzionale ai docenti, che pure sono la categoria cardine della relazione scolastica. Docenti e alunni, accomunati da etichette poco gratificanti: fannulloni, impreparati, senza meriti. Già ritengo inconcepibile che una nazione possa rivolgersi allo strumento principe di avanzamento culturale e sviluppo quale è la scuola in questo modo, ipotizzando di intervenire su di essa con intento sanzionatorio e di contenimento. Ma ritengo anche molto fondato il fatto che il disinteresse e la scarsa incisività delle azioni in difesa dei diritti degli insegnanti dipenda dal fatto che il mondo della scuola sia connotato al femminile. Antropologicamente parlando, questo è un dato di per sé negativo, perché non la disparità numerica tra donne e uomini nella scuola crea uno squilibro nella proposta di modelli comportamentali e culturali. A questo si aggiunge che l’implicita funzione di “accadimento” che l’insegnante donna veicola, ha facilitato l’affermarsi silente e sotterraneo di un modello di scuola dove la trasmissione culturale si è progressivamente sbiadita e ci ha permesso di accettare, non solo come docenti ma come cittadini, che le esistano le “classi pollaio”, dove l’unica aspirazione è mantenere l’ordine. La riduzione dei posti, poi, dovuta alla “riforma” Gelmini della scuola superiore, all’accorpamento delle classi, ai tagli di compresenze, quindi, senza che nessuno se ne accorgesse o sottolineasse il dato, ha portato ad incidere negativamente sull’occupazione femminile, già in decremento e che, in un periodo di crisi, ha già subito generalizzate contrazioni. Ma anche questo dato, insieme alla precarietà strutturalmente presente nella scuola, è stato completamente ignorato frutto di una cultura marcatamente maschilista che non riusciamo a scardinare.
Le donne quindi, sempre e tutt’ora, non godono di pari opportunità nell’affermazione della propria professionalità e della propria posizione sociale e nel mondo scolastico questo dato è lampante. Inquinata dal concetto di “produttività”, quindi, nella scuola e sulla scuola si può tutto, perché scarsa è resistenza che l’universo femminile, quasi nulla è l’azione politica in difesa della pari opportunità e dell’emancipazione femminile nel lavoro e nella società. Senza entrare nella retorica della scarsa presenza delle donne nei luoghi di potere, non si può tacere che ancora troppo poche sono le donne in politica, dato questo non secondario se si vuole provare a portare il nostro Paese ad un livello di civiltà adeguato. Dobbiamo però ammettere che, come tutti i processi di emancipazione, è necessario che parta dalle donne stesse un discorso di autodeterminazione e di autoaffermazione per il quale è forse necessario fare ricorso a pratiche conflittuali, le uniche che permettano di uscire dalle logiche di genere che caratterizzano le nostre dinamiche sociali e che, inequivocabilmente, sono connotate al maschile. Anche nella scuola non vedo altra soluzione.
Valeria Bruccola, insegnante precaria e candidata di Rivoluzione Civile alle elezioni politiche e regionali a Roma e Viterbo
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