Eh, lo so, siete molto scettici riguardo a queste cose. Però, credetemi, sono nato moltissimi decenni fa e ogni tanto mi diletto a passare un po’ di tempo in questo che voi chiamate mondo e ad osservare quella che, presuntuosamente quanto assurdamente, chiamate “vita”.
Vi vedo correre affannati per tentare inutilmente di recuperare un po’ di quel tempo che avete sprecato annoiandovi, arrabbiandovi, lamentandovi, rimpiangendo, oziando.
E – soprattutto – vi sento urlare, in famiglia, coi conoscenti, col pubblico. Urlano i cittadini, i governanti, gli esperti tuttologi, i moderatori che non sanno moderare neanche sé stessi. La parola che ascolto più frequente è “Diritto”: Diritto alla pari opportunità, allo studio, al lavoro, alla giustizia, alla casa. Cose giustissime, per carità. Se non fosse che – contemporaneamente – noto la scomparsa di un’altra parola complementare: dovere. Tutti volete avere i diritti, nessuno più ricorda di avere un qualsiasi dovere.
Non sbuffate, gente del terzo millennio, non chiamatemi barboso retrogrado, sorpassato, nazista, comunista, integralista, perché non lo sono. Solo che la mia condizione mi consente di osservare distaccatamente, dall’alto (è proprio il caso di dirlo…) la vostra contraddittoria quotidianità.
I ragazzi, ad esempio. Vanno a scuola con lo zainetto griffato e l’extension, il motorino e il piercing. Vogliono una scuola che educhi, istruisca, insegni un mestiere, aggiorni sulle nuove tecnologie e non vogliono i compiti, perché nel pomeriggio c’è la palestra, il corso di chitarra, la partita, la passioncella, la chat, il pub.
La società, fondata sul mito della bellezza-giovinezza, li esalta e essi si sentono più che mai intoccabili e invincibili, forse immortali. Oggi c’è anche il fenomeno del bullismo, da combattere con tutti i mezzi… Ma quali mezzi? Un rimprovero causerebbe un trauma all’alunno, non parliamo di sospensioni-fasciste o di un qualsiasi castigo che – a vostro dire – provocherebbe ferite mai rimarginabili nella psiche giovanile.
Forse cominciò tutto col ‘68 che, benché finito come è finito, diede uno scossone fortissimo alla società, abbattendo giudizi e pregiudizi, regolamenti e leggi.
Ma non dimenticate che anche quelli che oggi sono i professori sono figli del ’68, cresciuti col voto politico e la crisi economica. Che spesso fanno gli insegnanti perché è l’unico posto che hanno trovato e devono pur sopravvivere.
Anche se svolgono il loro lavoro con dignità e serietà, non sono santi né missionari. Sono pubblici dipendenti, malpagati, paralizzati da direttive e ordinanze, schiacciati da una montagna di responsabilità gestionali e organizzative. Devono vedersela con i genitori per i quali i loro figli sono il Duce: hanno sempre ragione, col Dirigente che, oltre a Collegi, riunioni e programmazioni, li vorrebbe sempre impegnati a realizzare progetti inutili, e – soprattutto – devono vedersela col Governo, che taglia posti e fondi, e la chiama Riforma e scuola di eccellenza.
La mattina i professori entrano in classe, trepidanti, come nella fossa dei leoni.
E se qualche volta si assentano per futili motivi, forse è per ritemprarsi un po’. Se talvolta fanno le schedine in classe, forse è perché sperano anche loro in una vita migliore, e se capita che durante il compito in classe diano un’occhiata a voi e una al quotidiano, beh, forse lo fanno per non vedere che state scrivendo quello che vi dettano col cellulare.
Eh, sì, ai miei tempi era diverso, non c’era il cellulare e, molto spesso, non c’erano neanche le scuole.
Non prendetevela con me, ragazzi. Tanto, dove sono ora non arrivano insulti e imprecazioni, dove sono ora regna l’armonia ed è probabile che l’angolazione da cui osservo falsi parecchio la prospettiva del problema…