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La lettera dei “19 studenti” che invitano Monti ad abolire l’articolo 18, pubblicata stamattina sul Corriere, non ci rappresenta, e non rappresenta le centinaia di migliaia di studenti che da anni si mobilitano per cancellare la precarietà e non per estenderla a tutti.
Di seguito, la nostra lettera di risposta.
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Il Corriere della Sere pubblica oggi in prima pagina una lettera scritta da 19 giovani, una lettera rancorosa, densa di retorica e purtroppo priva di proposte concrete per far uscire i giovani italiani dalla precarietà.
I 19 nostri coetanei sostengono che, come giovani, “abbiamo subito le decisioni e consentito che la nostra indifferenza lasciasse ampi spazi di manovra a chi non ha avuto a cuore le nostre sorti”i. Speriamo che questa affermazione sia una forma di autocritica di chi, in questi anni, è rimasto indifferente di fronte alla tragedia della precarietà e alla questione generazionale. Ci permettiamo di informare gli autori della lettera che per tanti altri non è stato così. Noi stessi siamo tra le centinaia di migliaia di giovani italiani che non hanno accettato di subire passivamente le decisioni che in questi anni hanno prodotto il dilagare della precarietà e l’impoverimento della nostra generazione, e si sono mobilitati negli ultimi anni in difesa della scuola e dell’università pubbliche e contro la precarietà, analizzando leggi e decreti, criticandoli, scendendo in piazza, occupando scuole e università, formulando proposte concrete e rivendicando proprio quel grande piano di investimento sul futuro, sui saperi, sui giovani a cui i 19 si riferiscono.
Sostenere, come fanno i 19 firmatari, che “il nanismo del settore imprenditoriale è anche cagionato da norme oggi superate”, riferendosi all’articolo 18 per le imprese con più di 15 dipendenti è un falso comprovato da qualsiasi studio sull’argomento (ma basta guardare i dati sul numero dei dipendenti delle imprese italiane per accorgersi che non c’è alcuna discontinuità in corrispondenza del limite dei 15), esattamente come affermare che i lavoratori italiani oggi siano privilegiati rispetto ai loro corrispettivi europei (strumenti simili all’articolo 18 esistono in gran parte dei paesi europei, e in ogni caso l’indice di protezione dal licenziamento, in Italia, secondo i dati Ocse, è ben al di sotto della media europea).
I nostri 19 mostrano, purtroppo, di essere caduti nella solita vecchia trappola: di fronte a una situazione di ingiustizia evidente che i giovani italiani vivono – questa sì senza eguali in Europa – ovvero il drammatico dilagare della precarietà e l’impoverimento generale di gran parte degli italiani negli ultimi due decenni, mentre profitti e dividendi crescevano, l’attenzione viene spostata su un argomento completamente diverso, cioè l’articolo 18 e le tutele dei lavoratori a tempo indeterminato. Invece di mobilitarsi insieme contro chi da anni lucra sullo sfruttamento della precarietà, invece di denunciare un sistema economico e produttivo del tutto incapace di promuovere innovazione e in grado di generare profitti solo risparmiando sempre di più sulle retribuzioni e i diritti di chi lavora, invece di indicare nel pacchetto Treu e nella legge 30 i provvedimenti che hanno condannato la nostra generazione alla precarietà, si cade nella trappola dello scontro generazionale, che oggi rischia di essere solo una guerra tra poveri.
Perché non cambiamo registro, per una volta? Perché non ribaltiamo la retorica darwinistica del merito, chiedendo un sistema di welfare che possa eliminare prima di tutto le disuguaglianze e garantire a tutti le stesse possibilità? Perché non chiediamo uguali diritti e garanzie a prescindere dalle forme contrattuali? Perché non parliamo di quale modello di sviluppo vogliamo portare avanti nei prossimi decenni, per evitare che crisi come queste si ripresentino ciclicamente? Per questo lanciamo una sfida: costruiamo una riforma vera, che abbia come obiettivo il diritto al futuro, un futuro basato su saperi, diritti e innovazione.
Vogliamo una riforma del mercato del lavoro che cancelli davvero la precarietà, a partire dalla giungla delle 46 tipologie di contratto atipico, e non che questa venga estesa universalmente liberalizzando i licenziamenti.
Abbiamo bisogno di un nuovo welfare universale fatto di servizi pubblici e di un reddito di base pari almeno al 60% del reddito mediano nazionale, in grado di promuovere la nostra libertà di scegliere e autodeterminare i nostri percorsi personali e professionali senza sottostare a minacce e ricatti.
Abbiamo bisogno di un piano di investimento pubblico sui saperi, sulla scuola, sull’università, sulla ricerca, in grado di farci uscire dalla crisi senza ripetere i meccanismi che l’hanno generata, ma mettendo le nostre intelligenze e le nostre energie al servizio della conversione ecologica dell’economia e della costruzione di un nuovo modello di sviluppo. Altro che 19, noi siamo il 99%.
Speriamo che i giovani smettano di essere un orpello retorico da utilizzare in uno scontro che ci vede parte in causa e che possano sempre più essere parte attiva del dibattito.
Se, come il Presidente Monti spesso dice, quel che si sta facendo lo si fa per noi, che si apra davvero un dibattito concreto, che si ascoltino o si leggano le tantissime proposte degli studenti italiani: si scoprirà che quel di cui abbiamo bisogno è molto differente da quel che si propone in nostro nome.
Distinti saluti,
gli studenti e le studentesse che in tutta Italia partecipano alla Rete della Conoscenza