Da postulanti impotenti a proponenti consapevoli: una legge di iniziativa popolare per rifondare gli statuti e ridefinire le finalità della scuola pubblica.
di Marcella Raiola
In un suo recente ed apprezzato intervento, una prof.ssa del liceo “Da Vinci” di Genova ha delineato efficacemente le dinamiche della scuola-azienda e il pervertimento di valori e ruoli prodotto dalla mercificazione del sapere e dall’estensione indebita delle logiche del mercato ai processi di formazione. La scuola pubblica, unica istituzione ad essere vantaggiosamente “inattuale”, socialmente riequilibrante e strutturalmente o tendenzialmente immune dal morbo della compravendita, del semplicismo liquidatorio e dell’esibizionismo arrivista, ha sempre costituito un problema per le classi dirigenti, che di sperequazione economico-sociale si nutrono e che grazie all’abdicazione conoscitiva e, quindi, all’acritico consenso, riescono a perpetuare il loro potere.
I mutamenti cui la scuola è andata incontro sono legati a doppio filo ai mutamenti sociali, e questo è innegabile; però io sento di poter dire, per averlo sperimentato di persona in modo anche abbastanza grottesco, che spesso la scuola ha anticipato le pretese delle famiglie, o, peggio, le ha precostituite, autorappresentandosi come servizio scadente, fallibile e contestabile, alimentando fino al parossismo la psicosi del ricorso e favorendo l’insorgere di un clima conflittuale prima che vi fosse o addirittura senza che vi fosse alcuna volontà di ritorsione da parte delle famiglie stesse!Molti dei dirigenti scolastici che ho conosciuto, infatti, hanno spesso usato l’arma ricattatoria della “denuncia” e del “ricorso” da parte dei genitori come spauracchio per neutralizzare la collegialità e l’autonomia valutativa e didattica dei docenti, nonché per indurre i docenti a svolgere mansioni non previste (vigilanza, per esempio!) e prima inusitate per l’insegnante, anello debole della catena, anche dal punto di vista sindacale, diffamato e screditato più del funzionario e del bidello, perché più pericoloso a livello politico e ideologico.
Insomma: la scuola, in nome del risparmio “virtuoso” e per accreditare il risparmio come unica virtù, ha insegnato ai genitori l’arte di delegittimarla, anzi, di delegittimare l’unica sua componente che, per motivi professionali, etici e civici rilutta ad adattarsi all’ignobile nuovo corso: quella dei docenti. Non a caso, sono i docenti che lamentano da tempo i dànni paideutici e sociali prodotti da questa metamorfosi; sono i docenti, oggetto di demonizzazioni interessate, diffamazioni acrimoniose e indecenti vessazioni, a scendere in piazza sistematicamente, non solo per rivendicare il diritto al lavoro negato o scippato, ma anche quella dignità e libertà di azione che consenta a loro e ai ragazzi di vivere in modo autentico e pulito, senza prevaricazioni e senza alibi di comodo, l’esperienza complessa e necessariamente non indolore della formazione e della crescita, nell’interesse di tutta la comunità.
Assai meno numerose, invece, sono le denunce e le voci che si sono levate dai dirigenti, allettati dalla possibilità di fregiarsi della lusinghiera e ambita qualifica di “manager”, quasi unanimemente organici al potere e per nulla reattivi, neppure di fronte alle censure fasciste e ai dispotici provvedimenti disciplinari minacciati o fatti scattare contro i pochi presidi apertamente “dissenzienti” dalla brutta caricatura di regime che è al potere in questo momento e che vi rimarrà chissà fino a quando, stante la totale acquiescenza delle colluse “opposizioni” e la pavidità degli organi istituzionali di controllo, inutilmente sollecitati a mettere fine ad uno sconcio che ha travolto il paese e ne ha stravolto la facies politica e culturale. Queste considerazioni conducono all’amaro riconoscimento dell’esistenza di un fronte interno di lotta, che rende più complicata e meno compatta la reazione della scuola alle inaccettabili brutalizzazioni e banalizzazioni moralistiche di un ministro mai come in questa legislatura inetto, impreparato ed eterodiretto. Ecco perché chi scrive propone che si smetta di considerare come “dato” e “rato” l’andazzo della scuola del terzo millennio, e come ormai “passati” e irreversibili l’assetto e l’idea della scuola-azienda, con tutte le loro esiziali conseguenze.
Se è possibile legiferare contro una norma di civiltà (testamento biologico) chiesta e voluta dal 70% degli italiani; se è possibile vanificare gli sforzi di anni e anni di campagne di sensibilizzazione, affossando con protervia esecrabile una legge contro l’omofobia, allora dev’essere contemplata anche la radicalità di una proposta che inverta processi intrapresi e rivelatisi fallimentari. Come per l’omofobia, dunque, relativamente alla quale Stefano Rodotà ha già postulato l’esigenza di redigere una proposta di legge dal basso che si imponga al Parlamento con la forza dell’adesione morale e civile di milioni di italiani, così è necessario stilare un articolato di legge popolare che, azzerando la visione bassamente mercantilistica e utilitaristica invalsa, ridefinisca in modo inequivoco le funzioni e la specificità operativa della scuola pubblica, bene comune non suscettibile di soggiacere alle logiche e fluttuazioni del mercato, modellando e calibrando sui presupposti teorici che tutti evochiamo nelle nostre sdegnate denunce l’organizzazione, gli obiettivi, gli investimenti, le finalità e i margini di discrezionalità o di intervento dei suoi operatori, che vanno selezionati in modo univoco e severo e stabilizzati per tempo.
Tale rifondazione statutaria potrà assicurare finalmente ai giovani una formazione seria e lo sviluppo di una coscienza civile che trovi riscontro dialettico nella società e non appaia più, invece, ai loro occhi, come una capziosa petizione di principio o uno sterile esercizio di vuota retorica. Una legge popolare, dunque, da sostenere con forza, che riconsegni all’intelletto e alla ricerca inesausta e comune i suoi spazi liberi e non ipotecabili; una legge che restituisca la scuola ai docenti, i docenti agli studenti, gli studenti alla società, la società a se stessa. Non è utopia. Non è vagheggiamento anacronistico. E’ il frutto plausibile e dolce di un convincimento da maturare in fretta. Magari cominciando a non usare più l’avverbio “ormai”.
Marcella Ràiola
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