Sono le quattro di un nero pomeriggio invernale e non so cosa fare. Ho finito di pranzare da un pezzo, sono pieno e non voglio altro. I compiti per domani, la lettura di qualche pagina di storia e due o tre esercizi di matematica, non mi hanno preso neanche troppo tempo, forse venti minuti, forse anche meno. Per la scuola ho già fatto tutto.
Sono le quattro e due minuti e non so cosa fare.
Davanti a me il tempo si dilata a dismisura. I secondi che avanzano mi sembrano ore. La lancetta mi sembra insolitamente lenta mentre scorre sul quadrante. Mi sembra un’eternità da quando il campanile della chiesa ha suonato i suoi solenni rintocchi.
La noia mi fa andare in cerca di qualunque diversivo, anche il più futile.
Nella mia camera mi avvicino alla finestra e guardo fuori.
Il cielo è cupo e grigio. Tutto è avvolto in una leggera penombra: le strade, gli edifici, anche le persone. Persino le luci delle insegne e dei fari delle macchine sembrano spente, per quanto brillanti. Tutto è scuro, e m’angoscia. Qualche istante, e mi trovo in mezzo alla stanza.
Ho la sensazione di aver già vissuto momenti di questo genere. Un lontano pomeriggio, sempre d’inverno, qualche anno fa. Più o meno la stessa ora. Stessa penombra, stesso freddo, stessa atmosfera quasi di morte.
Ricordo bene la mia vita in quei momenti: ero uscito da un’estate assolutamente vuota e pigra, forse l’estate più noiosa di tutta la mia breve esistenza, con mattine spente, lunghi pomeriggi a sperare di poter divertirmi, di fare qualcosa di piacevole, e sere ancora più noiose, accompagnate da una sorta di paura per il buio là fuori, così cupo, così opprimente, che finivo per inghiottire la noia, alleviandola con mezzi inutili.
Ero assolutamente solo. Ragazze, neanche a parlarne; compagni di scuola, a stento conoscevo i loro nomi.
Adesso le cose sono cambiate.
Col tempo la tua mente si allarga. Riesci a vedere molto al di là del punto in cui ti sei fermato a vedere prima. Il buio oltre la siepe, come si dice.
Una volta che l’ho attraversato, il buio non mi è sembrato più minaccioso come un tempo. Una passeggiata me l’ha fatto quasi apprezzare: perché dà un insolito fascino alle cose e alle persone, anche a ciò che prima non avresti degnato di uno sguardo.
Anche la scuola non mi è sembrata più maligna come all’inizio. È questo il segreto: si guarda la scuola come se fosse solo un edificio in cui si seguono lezioni o si danno interrogazioni. Con questa visuale, certo che non ci si può aspettare altro che un odio e una rassegnazione generali. Ma non è solo questo, l’ho capito una mattina, all’improvviso. Eravamo nel cortile, io e i miei compagni, una mattina fredda da renderti insensibili gli arti. Quella mattina mi annoiavo alla grande, e a un certo punto mi hanno proposto di giocare. Mancava un attaccante alla squadra. Ho accettato, se non altro avrei passato il tempo con qualcosa di stimolante. Ho trascorso momenti bellissimi che difficilmente potrò dimenticare.
Da allora ho guardato la scuola con occhi diversi. Sono membro ufficiale della squadra della scuola. Siedo il più delle volte in panchina, ma qualche volta do anch’io il mio contributo in campo.
Come ho detto, pian piano la mente si è allargata. Ho iniziato a conoscere quelle persone con le quali avevo trascorse centinaia di ore mattutine ad ascoltare lezioni o discorsi vari. Devo dire che ho avuto una graditissima sorpresa, quando ho scoperto com’erano realmente. Molto gentili, molto allegri, alla mano, non come altre mie vecchie conoscenze. Ma non rivanghiamo brutte ferite. Dico solo che mi ha fatto veramente piacere conoscerli.
Da quel momento, praticamente ogni settimana c’incontriamo, sei o sette di noi, e passiamo il tempo seguendo l’idea migliore che ci è venuta in mente. Proprio l’altro giorno abbiamo fatto una partitella nella quale, modestamente, ho dato il meglio di me stesso, contribuendo anche a cambiare il risultato.
Ora come ora guardo il telefonino con viva speranza. Lo fisso come se potessi cambiare lo stato delle cose. Come se potessi, con la forza del pensiero, illuminarlo, farlo suonare, dargli vita…
Parte la suoneria. Un boato nel silenzio.
La mia voce è mozzata quando dico: “Pronto?”
“Ehi, Manu, hai da fare oggi?”
Rido dentro di me.
“Ho tutto il tempo che voglio”.
“Io e la banda” ci chiamiamo così tra di noi “abbiamo pensato di fare un giro al centro commerciale. Che fai, vieni?”
“Certo, assolutamente. Dove c’incontriamo?”
“In piazza. Ce la fai per le cinque?”
“Oh, ma anche prima.”
“Ti aspettiamo allora.”
“Contateci.”
Click.
Sospiro.
Sorrido.
Rido, mentre un’immensa felicità m’invade. È la stessa felicità di chi ha avuto quella fortuna che gli basta per evitare un dolore insopportabile.
Da quella famosa sera io ho paura della noia. Cerco di scacciarla in tutti i modi, a costo di affrontare qualsiasi intemperia fuori o di leggere dieci volte lo stesso libro che conosco a memoria.
Il rintocco del campanile mi fa sobbalzare. Il tempo è quasi volato.
Esco come un razzo, dando appena un saluto ai miei genitori.
Il freddo della sera mi attende, imperturbabile. Mi sfrego le mani, le affondo nelle tasche, e quasi trattenendo il respiro avanzo nelle strade gelate, mi faccio avvolgere dalla penombra e affronto il buio imminente.
Le prime luci della sera abbagliano i miei occhi ormai abituati all’oscurità. I lampioni, le insegne, i fari mi costringono quasi a coprire gli occhi.
Anche per questa sera ho sconfitto i miei nemici, la noia, la solitudine, la marea scura sempre attorno a me.
Non so dove sarei adesso senza la scuola. Immaginando me stesso senza le mattine trascorse lì dentro, senza i compagni incontrati, senza i momenti vissuti, non riesco a vedere altro che buio. Un buio assoluto, molto più nero di quello che mi ha sempre circondato e che per poco non è riuscito ad avvolgermi nelle sue spire.
Alessandro Maxia
Nato a Cagliari nel 1987. Appassionato di scrittura praticamente da sempre. Con la convinzione sempre ferma di poter, dover e voler migliorare sempre di più, passo dopo passo, lavoro dopo lavoro.